Monday, January 09, 2012

Avrò avuto 12 o 13 anni. Era il periodo più afoso dell’estate e io ero in campeggio. Nel giorno della grande escursione, salivamo lentamente un pendio in fila indiana. A mezzogiorno, il sole guardava perpendicolare il picco della montagna. La roccia grigia del picco scintillava picchiata dai raggi e ci sorrideva come i cattivi dei cartoni animati. Noi picchiavamo invece coi passi il sentiero sassoso e rigido.  Camminavamo con gli zaini sulle spalle. Il mio pesava così tanto che per dare sollievo ai reni di tanto in tanto, mi buttavo in avanti a strusciare il naso sulle ginocchia. Il sollievo che ne ricavavo era piuttosto fugace, ma a me sembrava indispensabile. A quel tempo affrontavo la noia con passione.
A un certo punto, con lo zaino che mi inarcava la schiena e mi spingeva il naso a rimirare le ginocchia sbucciate, volevo buttarmi a terra e smettere di camminare. Non per sempre, dicevo al mio capo, Ezechiele. Solo per un po’. Lui mi diceva che per i soldati che erano partiti per la campagna di Russia, compiere quel gesto significava  morire. Tentare di riposare significava farlo per sempre, morire per sempre. Io però non mi consolavo e pensavo a tutta la neve che quei soldati avevano a disposizione per bere per sempre, e la morte mi sembrava lontana. In fondo gli chiedevo solo di farmi fermare  per qualche secondo, senza buttarmi per terra.
Volevo rimanere in piedi, dicevo, per guardare con gli occhi quanto spazio ancora ci divideva dalla vetta. Lui si scostava dalla fila e mi rimaneva al fianco e,  come tutti i bravi compagni di cordata, impediva che io mi fermassi. Siccome avevo molta più forza nelle gambe di quanto non credessi, continuavo a camminare sulla scorta delle sue esortazioni. Dopo qualche centinaio di metri però, con la gola in fiamme e poca speranza in corpo, estrassi la borraccia dalla tasca anteriore dello zaino. Ero sul punto di accostarvi le labbra, ma una stretta violenta sull’avambraccio arrestò il mio tentativo.  Sempre lui.  Aveva uno sguardo diverso stavolta. La luce dei suoi occhi in quel momento bruciava di saggezza, filtrata da un paio di occhiali da vista ampi e fuori moda. Bere aumenterà la tua stanchezza, mi diceva. E aprendo il palmo della mano mi porgeva un sassolino bianco dal diametro infinitesimale. Se hai sete, metti questo sotto la lingua e ti passerà.
Continuando a camminare in salita, con gli alberi invisibili all’orizzonte e i denti molto stretti,  credo di aver pensato che la saggezza a volte può essere usata male.  O qualcosa del genere. 
 

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